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EmergentiInterviste

Altre Di B: SDENG manifesto di libertà

Sono passati esattamente dieci anni dal debutto sulle scene delle Altre Di B, influente band bolognese diventata un punto di riferimento dell’indie rock. Dal 2011 ne è passata di acqua sotto i ponti, tra album di grande presa e performance live internazionali memorabili (qualcuno se li ricorderà in un set mostruoso a Castelbuono, in Sicilia, nella meravigliosa cornice dell’Ypsigrock Festival).

Per registrare il terzo disco, intitolato SDENG e pubblicato lo scorso 14 maggio per Costello’s Records, il gruppo formato da Giacomo, Andrea, Giovanni e Alberto ha deciso di trasferirsi in un contesto diverso rispetto ai precedenti, rurale, tipicamente campagnolo, fattore che ha contribuito alla nascita di un progetto libero dai concept e particolarmente ispirato. Abbiamo fatto una piacevolissima chiacchierata con i ragazzi, parlando non soltanto della nuova produzione discografica ma anche della difficilissima situazione attuale.

Ragazzi, SDENG è un disco molto importante, nato in un contesto nuovo, la campagna, e creato in totale libertà, senza dunque l’esigenza di ricorrere alla formula del concept come capitato negli album precedenti. Quanto sono correlate le due cose? Avevate già in mente di scrivere liberi da ogni tema oppure è stato il luogo a suggerirvi questa nuova via?
Dopo due concept, uno sullo sport e l’altro sull’invenzione dei fusi orari, avevamo l’esigenza di trovare una nuova modalità di scrittura che non mettesse a fuoco un unico tema e lo sviscerasse. Il nuovo contesto rurale ci ha dato la possibilità di lavorare di pari passo con la stagionalità e i suoi contrasti: il caldo e il freddo, la felicità e i malumori, la calma e la fretta, i frutti della terra e l’aridità. Ci siamo presi il nostro tempo e ci siamo resi conto che la vita agreste assomiglia alle cose della vita e per coerenza il disco è stato registrato in campagna, con Bruno Germano al Vacuum Studio.

Tutte le dieci tracce gravitano sempre intorno al passo falso, o perlomeno alla cosiddetta cantonata. Tutti aspetti da una parte traumatici e dall’altro, come spesso capita nell’arte, terapeutici. Vi sentite liberi adesso che siete riusciti a buttare fuori tutte le vostre emozioni?
È stato infatti un lavoro apotropaico, liberatorio: credo serva a questo scrivere. Abbiamo parlato di rapporti, di vanità, di lavoro e genitorialità soffocante. Ma anche di rivalsa, che è l’azione più liberatoria al mondo.

In “Mommy” raccontate il comportamento asfissiante di una madre, per certi versi ricorda alcune pagine di musica di Nada. Com’è nato questo brano?
Giacomo: Dal punto di vista musicale sono stato sopraffatto dalla bellezza di un live dei Parquet Courts: il brano in questione è Before the water gets to high ed è suonato col Suzuki Omnichord, che è un bellissimo strumento, limitato e particolare. Non potendone avere uno a disposizione abbiamo ripiegato sul Korg Electribe, non meno limitato e particolare, per utilizzare una base trap sulla quale abbiamo scritto la melodia portante. Ho iniziato a cantarci sopra una serie di frasi in inglese sgrammaticato per costruirci la metrica e in un secondo momento ho notato che stavo usando esclusivamente degli imperativi: fa’ questo, fa’ quello, comportati così, fa’ il bravo, non fare il bagno dopo mangiato. Inizialmente sembrava un testo motivazionale, poi mi sono reso conto che erano le frasi di un genitore un po’ troppo apprensivo, che tratta i figli come le piante sul davanzale della finestra: curatissime, ma impossibilitate ad andarsene.

Mi ha colpito particolarmente il concept che c’è dietro 9-5er, che ingloba sia l’automatismo lavorativo che la libertà di scardinare le abitudini; alcuni musicisti, penso a Edda, hanno più volte dichiarato di riuscire a comporre solo se riescono a settare la loro giornata proprio come un “lavoro” di ufficio, dunque imponendosi per esempio ogni giorno di andare in studio e buttare giù qualcosa. Qual è il vostro rapporto con l’ispirazione?
Diversamente da Edda viviamo l’ispirazione in maniera differente, per quanto la sua sia una routine che usano in tanti musicisti che conosciamo, per cadenzare le giornate come fosse lavoro d’ufficio. Io (Giacomo) dall’ufficio ci sono scappato anni fa: lavoravo dalle 7,30 alle 16 e, per la mansione che avevo, alle 8,30 avevo già finito di fare il lavoro di tutta la giornata e passavo le restanti ore a scaldare una sedia da ufficio, scrivendo sul blog di Myspace delle Altre di B, scaricando musica illegalmente e iscrivendomi ai contest per band emergenti. Lì per lì la vivevo come fosse un internet point gratuito, ma guardando indietro penso che quella fosse una logorante e inutile perdita di tempo. Potrebbe suonare una cosa un po’ fricchettona, ma l’ispirazione la sentiamo arrivare, spesso quando siamo alla guida, o ai concerti di altri musicisti: abbiamo i telefoni ricolmi di audio vocali nei quali cantiamo e facciamo la batteria con la voce.

Credits Photo: Marianna Fornaro

Bologna è una città che artisticamente (e non solo) non ha bisogno di presentazioni. Oggi, nel 2021, con tutto quello che è successo, che città è?
Parafrasando le parole del nostro concittadino e influencer Danilo Masotti, può venire la guerra, la pandemia, la carestia, o una pioggia di rane, ma alla fine resta sempre tutto uguale. A Bologna è rimasto tutto identico a prima: stiamo per cambiare sindaco, i ristoranti sono gremiti, le piazze sono piene di universitari fuorisede dei quale i più bacchettoni si lamentano perché sono perdigiorno terroni e drogati, le piste ciclabili fanno schifo e si rivendica la paternità del tortellino, altro che i modenesi. La pandemia ha acuito i mormorii della gente.

Durante la pandemia le uscite discografiche non si sono fermate. Voi che musica avete ascoltato?
Beach Boys, Ra Ra Riot, Petite League, Shame, Squid, Saib, The Beths, ma anche Tricarico, Jesse The Faccio e il nuovo dei Notwist. E abbiamo anche prodotto il primo EP de LaPara.

Per salutarvi, oltre a sapere se ci sono delle novità sul fronte live, mi piacerebbe chiedervi cosa vi ha dato più fastidio nel trattamento della politica verso l’industria dell’intrattenimento. Molti hanno accusato Willie Peyote di populismo per la frase “Riapriamo gli stadi ma non Teatri né live”. Eppure mercoledì scorso la Finale di Coppa Italia è andata in scena con il pubblico, con tanto di regola per il coprifuoco…
Due mesi prima di Sanremo abbiamo inscenato una protesta dal balcone di casa di Giacomo, dove ogni 6 gennaio si tiene il concerto della Befana delle Altre di B. Questa volta, per rispetto delle circostanze delicate in cui siamo da un anno e mezzo (oltretutto Alberto in quei giorni lavorava in reparto Covid a Pisa), siamo saliti sul balcone con gli strumenti, ma non abbiamo suonato: abbiamo preferito esporre uno striscione col simbolo mute del telecomando.

Il senso era esattamente quello che è stato denunciato in seguito da Willie Peyote e altri: per le istituzioni l’importante è andare a lavorare, ma a fare un lavoro vero, mica come quelli che fanno teatro e fanno musica. E una volta finito di lavorare tutti allo stadio. Non è altro che, 2000 anni dopo le Satire di Giovenale, il concetto di panem et circenses.

Credits Photo: Rebecca Paraciani

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