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Interviste

Galoni, Cronache di un tempo storto – Intervista

C’è un disco che ti fa sentire piccolo piccolo ed allo stesso tempo parte di tutto e connesso con il mondo.
Lo stesso disco stimola così tanto la fame di bellezza che appena finisci di ascoltarlo c’è bisogno di una pausa, di lasciarlo decantare e di riflettere.
Questo è l’effetto che fa Galoni che, dopo il capolavoro “Incontinenti alla deriva” (2018), torna con un nuovo album: “Cronache di un tempo storto” (Freecom Hub/Amor Fati/Believe).
Le verità e la cultura che trasuda dai testi del cantautore sono piacevolmente disarmanti e non si può fare a meno di lasciarsi riempire fino al midollo di un cantautorato di cui, almeno io, sento un po’ la mancanza.
Dopo averlo incontrato al Monk di Roma, in occasione del Release Party del nuovo disco preceduto a sua volta dall’uscita del singolo “Mare Magnum”, abbiamo fatto quattro chiacchiere con Galoni.

“Sono meglio di un affresco le storie dei passanti”.
Nel tuo nuovo disco “Cronache di un tempo storto” si percepisce la ricerca di qualcosa di vero, dalla voglia di bellezza nel semplice ma complicato “esercizio fisico di piangere” a una dimensione di speranza come gli occhi di una ragazza incontrata per caso in tram o di un ricordo “sicuro” come la figura di Gino.

Puoi parlarci del processo che ti ha portato a scrivere i nuovi brani?
Avevo il titolo del disco in mente e alcuni brani pronti, in particolare “Sui piani alti di un palazzo” e “Come il cobalto negli iPhone”, il primo è sul disastro del ponte Morandi, l’altro sul naufragio nel canale di Sicilia del 2015.
Poi è arrivata la pandemia e sono uscite fuori “L’esercizio fisico di piangere” e “Gino”. Tuttavia nel corso della scrittura mi sono accorto che uscivano anche cronache personali, quasi diaristiche. Dunque ho capito che in queste grandi storie collettive c’era anche una intimità che aveva necessità di essere raccontata.
La storia di “Patrimonio dell’Unesco” in parte è vera. Ho frequentato il 19 da Piazza Risorgimento a Porta Maggiore negli anni dell’Università ed ho ancora il ricordo nitido di alcuni personaggi che incontravo quotidianamente. Gino è un mio amico di d’infanzia, abbiamo condiviso molte cose insieme. Quando beveva lo faceva bene e molto spesso chiudeva le serate con un bagno nella fontana del paese, tra i pesci.

A volte la sensazione che si ha, dopo questo lungo periodo di pandemia, è la netta differenza tra chi è rimasto in superficie e chi ha cominciato a creare disamine costanti sulla propria quotidianità.
Nel secondo caso però questa sorta di “over thinking” genera anche dei momenti di vuoto. Tu come hai affrontato questi anni?
Sono stati anni particolari, per quanto mi riguarda la pandemia è stato quasi un giro di boa. Ho fatto scelte che probabilmente non avrei fatto senza questa esperienza di smarrimento collettivo. Questo disco è nato anche a seguito di questi eventi, che adesso sembrano già dimenticati, svuotati di valore. Io ho un grande rispetto della memoria storica e quel periodo lo ricordo come un tempo profondo.

In “Incontinenti alla deriva” crei più volte un immaginario molto ampio, oserei dire spazioso, mentre nel tuo ultimo lavoro percepisco un’urgenza di toccare con mano una dimensione più piccola, quasi familiare.
Hai ritrovato “la strada di casa” in questo album?

Beh direi di sì, tutto il disco ruota intorno al concetto di casa, ma più che spazio fisico e definito si tratta di qualcosa di interiore, in cui trovare alloggio nel momento dello smarrimento. In tutte le canzoni c’è questo aspetto e me ne sono accorto alla fine. Tutti i protagonisti di queste storie hanno a che fare con una dimora, declinata in modi diversi. Ed è proprio in quel momento che ho chiamato Andrea Calisi che disegna cose bellissime e gli ho chiesto se poteva farmi una copertina con una casa irreale, quasi metafisica. Perché alla fine c’è da dire che l’unica casa che abitiamo è il nostro corpo.

Sarò provocatorio : citavo prima i “superficiali”, tra cui tendo ad infilarci i bulimici dell’arte, chi consuma cataloghi Netflix e playlist Spotify in un modo totalmente inconsapevole, come se la paura che il tempo si fermi di nuovo da un momento all’altro li rincorresse ogni giorno.
Per come stanno andando le cose, credi che un disco così importante e profondo possa trovare spazio tra le “pause in mezzo alla fretta”, in un futuro prossimo?

Mah, io ho smesso di pormi questo tipo di domande. Sono molto contento intanto che questo disco sia uscito e trovi spazio nelle vite (non nelle pause) di chi mi segue e aspetta l’uscita da un po’ di tempo.

“Buoni propositi per il nuovo anno” è, a mio avviso, il mantra del disco, la risposta aperta alle domande implicite che arrivano tra un brano e l’altro, oltre ad un modo per “fare amicizia con i tuoi tormenti”. So che può sembrare banale ma qual è il buon proposito che un cantautore del tuo spessore si augura di mantenere per il futuro?
Io mi auguro sempre di mantenere la determinazione e la voglia di scrivere canzoni. Tra l’altro era uno dei buoni propositi di Woody Guthrie, “scrivere una canzone al giorno”, diceva lui. Ecco, mantenere alta l’attenzione, la curiosità, l’impegno e la determinazione nel continuare a scrivere, questo è un grande proposito. Perché alla fine di tutte le chiacchiere l’unica cosa che conta e che resta è la canzone. E soprattutto una bella canzone.

Noi “Cronache di un tempo storto” ce lo siamo già goduto live in un concerto a dir poco commovente. L’aspettativa per l’ascolto in cuffia era alta ma è stata ampiamente soddisfatta.
Galoni ha lasciato un nuovo solco in un percorso discografico fuori dal tempo e dalle regole di mercato.
Questo è un altro disco del cantautore di Giulianello (RM) che, a mio umile parere, rimarrà nella storia della musica italiana.

a cura di Luca Frugoni

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