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Interviste

Ricerca e sperimentazione, il concept album di Boosta

Boosta

Un percorso oculato di ricerca e sperimentazione. Forse è questo il modo più elementare per sintetizzare il nuovo, tutt’altro che semplice, progetto di Davide Boosta Dileo, intitolato Post piano session e composto da sei volumi presentati sotto forma di EP in uscita tra settembre e dicembre.

Si tratta di vere e proprie composizioni strumentali, libere di fluttuare nell’aria e nel suono partendo dai tasti del pianoforte e sfociando poi nell’elettronica e in sciami contemporanei, tutti partoriti dalla mente creativa del musicista, in questa occasione spinto esclusivamente dalla propria visione e dalla propria urgenza espressiva. Abbiamo intercettato Davide per approfondire meglio questa nuova esplorazione, toccando argomenti importanti come l’influenza della musica colta avanguardista non risparmiandoci anche delle riflessioni sull’attualità.

Davide, ascoltando i primi due EP del tuo nuovo progetto emerge una differenza sostanziale rispetto al lavoro precedente, “Facile”. In particolar modo qui si sente una matrice sperimentale molto più acuta, cosa ha dettato questa scelta?

C’è una esplorazione del suono che comincia a essere più approfondita e libera. In piccolissimo, è come quando nel novecento, tutta un’ondata di artisti ha sentito l’esigenza di infrangere il canone e scrivere pagine nuove. Io ho iniziato un percorso a cui mi sto velocemente attaccando. Sto diventando avido e dipendente dall’evoluzione. Forse è urgenza di essere sempre vicino alla musica, che è quello amo, forse è un processo naturale. Ma finché sento la necessità di questo credo che sia tutto a posto.

Se la prima session era essenzialmente legata al piano contaminato con l’elettronica, nella seconda l’approccio sembra molto diverso, prepotentemente virato verso il post rock. La sensazione è dunque che ogni sessione sia un tassello diverso dal precedente. Come hai definito quest’ordine?

Io amo la musica, e amo il suono. Credo nell’assunto che sia la forma d’arte più fondamentale nella vita dell’uomo. E’ uno stato naturale, quello del compositore, tirare fuori idee in forma grezza e poi cominciare a dar loro una forma. POST PIANO SESSION possiamo definirlo la mia calligrafia attuale. Tutti cambiamo pelle per conseguenza del fatto che cresciamo, cambiamo interessi, modifichiamo il pensiero e il ragionamento, evolviamo.
Questo concept album (perché di questo si tratta) è la mia mappa per guidarmi attraverso un viaggio che amo: il suono, il pianoforte e l’elettronica, le mie grandi passioni. Un disco solo sarebbe stato come visitare luoghi dal finestrino di un treno, senza permettersi il tempo di scendere e provare a vivere un po’ meglio i luoghi. Per fare la musica, e per ascoltarla, serve più tempo. Ogni uscita è una esplorazione. E un omaggio allo stesso tempo.
Amo il post rock che, per definizione, è un genere ostaggio delle chitarre. Ma il pianoforte è uno strumento a corda, quindi ho voluto giocare con le distorsioni per rendere merito a uno dei generi (anche se lo steccato di genere è orribile) che più amo.

L’aspetto che colpisce particolarmente di questi primi due EP deriva dalle radici storiche. Il rimando con la musica colta contemporanea appare infatti evidente: nella prima session in alcuni passaggi sembra tu stia indagando verso la profondità, un po’ come fatto da Giacinto Scelsi, nel secondo c’è una concezione noise che ricorda Henry Cowell. Quali sono i tuoi riferimenti?

Il mio viaggio inizia all’inizio del novecento con il minimalismo, di Mompou ad esempio, corre per il secolo attraverso la scoperta di artisti come Bernand Parmegiani e Luc Ferreri, passa dalle parti di Aarvo Part, si immerge nella Soundwave del Dancefloor degli anni ‘90 (penso agli Orbital ad esempio) …insomma, non è un percorso lineare perché la divisione dei comparti musicali è realmente impossibile. Sono felicemente derivativo rispetto a quello che amo.

Come stai portando il tuo progetto nella dimensione live? Facciamo godere appassionati e nerd: descrivici, a grandi linee, la tua strumentazione…

È un set snello ma impegnativo perché è quasi tutto alla vecchia maniera, niente automazioni e quindi tutti i segnali, degli strumenti, degli effetti, vengono aperti e chiusi a mano. Un po’ distrae dal semplice atto di suonare, ma è necessario per avere la tavolozza di colori di cui ho bisogno.I due pianoforti (uno Yamaha C7 e un Rhodes) sono il cuore. Il piano ha il segnale pulito e un ritorno microfonico dedicato che ritorna diritto nella mia interfaccia. il resto dell’hardware sono un MS20 Korg per le parti di monofonico, basso incluso, un Take5 Prophet per le parti di Synth e per gli arpeggiatori, una Elektron Digitakt per alcune brevi sequenze quando ne ho bisogno e un iPad su cui gira AUM (un mixer digitale in cui ritornano i canali audio) e gli effetti (su tutti Eventide e per la granulazione Borderlands) controllato da due Knob Controllers (Novation e Faderfox) e tre a pedale (Beatbars ). Poi ho tre Ebow che ogni tanto piazzo sulle corde e un paio di walkman in cui ho inserito due tape loop per fare un po’ di sampling vecchia maniera in tempo reale.

Con l’avvento della musica liquida, finalmente, stanno emergendo sempre di più dei b-side molto interessanti firmati anche da artisti conosciuti del mainstream. Secondo te le piattaforme streaming hanno effettivamente permesso all’ascoltatore di allargare i propri orizzonti?

È sicuramente uno dei pregi, quello della scoperta. Purtroppo il lato oscuro della luna è, al netto di altri polemiche che conosciamo, è che per fare scoperta serve tempo, e tempo non tutti lo spendono. Manca forse una guida, l’algoritmo è certamente un supporto ma è assolutamente migliorabile. Ma sopra ogni cosa, il tempo d’ascolto, perché l’interfaccia ti porta allo swipe con una facilità che non aiuta l’approfondimento. Abbiamo tutta la musica del mondo a disposizione, ma forse ci passiamo sopra troppo in fretta.

Ricoprendo anche il ruolo di producer volevo chiederti infine un parere sul modo in cui si realizza la musica oggi nel pop. Non un giudizio qualitativo, ma proprio sul modus operandi: a volte sembra che manchino gli stimoli adeguati. Facendoci caso (parlando sempre in linea generale) la maggior parte dei suoni più interessanti, anche nell’elettronica, provengono sempre da album molto datati: non è che tutta questa tecnologia, tutti questi software, alla lunga, abbiamo un po’ spento le idee? Come intervenire in tal senso?

Dal gesto umano. Dall’urgenza di racconto. La tecnologia è uno strumento. E possiamo liberamente scegliere come servircene. Credo che per scrivere buona musica serva, prima di ogni cosa, averne bisogno. Nel bisogno c’è l’esigenza di farlo nel miglior modo possibile, e in questa esigenza c’è tutto il percorso di unicità del produttore.

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