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Francesco Sacco e l’esigenza di raccontare

Francesco Sacco, cantautore milanese ha lanciato lo scorso 16 aprile il nuovo singolo “Pioggia d’aprile”. Di lui sappiamo che arriva dalla celebre realtà underground di Bligny 42, che lavora da tempo nel mondo della musica intrecciandolo con quello delle arti performative e della moda. Con la moglie, la coreografa Giada Vailati, ha fondato il collettivo Cult Of Magic. Non basterebbe una telefonata per parlare della sua vita perché ha davvero tanto da raccontare.

La nostra intervista:

Ciao Francesco, come ti descrivi a chi non ti conosce, in poche parole?
Francesco Sacco è un cantautore e un compositore, ma innanzitutto una persona che vive e accumula esperienze, alcune delle quali sente l’esigenza di raccontare.

Il tuo ultimo singolo, Pioggia d’Aprile, vede la collaborazione con Alessandro Deidda, batterista de Le Vibrazioni. Come vi siete conosciuti e come siete finiti a suonare insieme?
Viviamo entrambi a Milano, che in fondo è una città piccola: specialmente fra musicisti ci si conosce un po’ tutti. Abbiamo iniziato a fare amicizia e a frequentarci, oltre che, ovviamente, parlare tantissimo di musica e fare cene che si trasformavano in jam. Andando molto d’accordo sia musicalmente che umanamente la collaborazione è nata in modo molto naturale: una sera gli ho fatto sentire la demo del brano, gli è piaciuta e si è offerto di suonarci la batteria.

Di cosa parla Pioggia d’Aprile?
Pioggia d’Aprile parla del mio ultimo anno, passato tra momenti di stasi forzata, quasi ipnotica, e l’impulso incontrollabile di tornare a vivere il presente. La socialità ridotta al mimino che abbiamo vissuto durante lo scorso anno, inizialmente non ha aiutato la mia creatività. Pioggia è stato il brano con il quale ho ripreso a scrivere. Infatti, oltre che raccontare vicende personali, idee e stati d’animo legati al periodo, nel ritornello mi lascio andare ad uno sfogo, esprimendo la volontà di riappropriarci del nostro tempo e delle nostre vite. In questo senso i paragoni che offrono una chiave di lettura sono due: quello del mondo naturale, per il quale il tempo non ha subito variazioni, e quello della sessualità, elemento animale che sopravvive anche in noi esseri umani. Per questo la pioggia diventa “la pioggia d’aprile che scende dalle tue mutande” nell’ultimo verso del ritornello.

Pioggia d’Aprile parla del mio ultimo anno, passato tra momenti di stasi forzata, quasi ipnotica, e l’impulso incontrollabile di tornare a vivere il presente.



Sempre in Pioggia d’Aprile accenni alla figura di tuo nonno, mancato nell’ultimo anno. Che rapporto avevi con lui?
Un rapporto davvero straordinario, questa risposta potrebbe diventare un libro. Mio nonno era un uomo eccezionale, da bambino passavo tantissimo tempo insieme a lui: è sempre stato un rapporto estremamente vivo e mai formale, che ha visto tanto amore ma anche tanti scontri. Gli sono immensamente grato per avermi insegnato ad usare così tanto la fantasia: casa dei nonni era un posto magico dove tutto era possibile, se ne avevo voglia potevamo passare pomeriggi interi a travestirci o a inventare i giochi più assurdi. Da adulto poi ho sempre ricevuto un supporto grandissimo da lui. Qualche volta si è anche presentato a qualche mio concerto senza avvisarmi: ad un certo punto lo vedevo in fondo alla sala con un bicchiere in mano.

Nel tuo brano Berlino Est dici: “Hai la faccia di Berlino Est”. Cosa rappresenta per te la città di Berlino?
In quel brano di Berlino mi interessa soprattutto il valore archetipico del muro, che è la prima immagine che mi è venuta in mente per visualizzare la divisione e l’incomunicabilità: pensare che in anni non così lontani esistesse un vero e proprio muro che divideva la città in due e di conseguenza le persone che ci vivevano, mi ha dato l’input giusto per parlare di due persone divise dal muro invisibile dell’incomunicabilità che c’è dopo una lite.

Ti sei formato nella realtà underground di Bligny 42, racconta cos’è per i lettori che non la conoscono.
Bligny 42 era uno dei luoghi più interessanti di Milano (parlo al passato perché purtroppo la gentrificazione e la speculazione edilizia sono arrivate anche lì, rovinandolo): un palazzo di ringhiera in piena Milano centro, sgangherato, pieno di povera gente e di storie di piccola delinquenza. Nonostante i titoli di giornale che negli anni l’hanno soprannominato “fortino della droga”, raccontandolo come un luogo non sicuro, non ho mai vissuto situazioni spiacevoli o incontrato cattive persone. Le attività illegali, tipo il piccolo spaccio, erano legate soprattutto a questioni di sussistenza e alla mancanza di alternative. Questa situazione ha fatto sì che gli affitti costassero pochissimo, e che moltissimi creativi si stabilissero lì: negli anni hanno vissuto e lavorato lì moltissimi artisti, Maurizio Cattelan ad esempio. Questo contrasto tra l’ambiente circostante e un fermento artistico assurdo donava un che di magico al palazzo, un’atmosfera da vie bohème.

Tu e tua moglie, la coreografa Giada Vailati, avete fondato un collettivo, Cult of Magic, che porta in giro per l’Italia svariate performance, di cui tu curi i componimenti. Sono rappresentazioni molto particolari, sicuramente di una comprensione non immediata per la maggior parte del pubblico. Da dove trai ispirazione per le musiche? E come vi è venuta questa idea?
Cult of Magic è nato come rifugio, come luogo di libertà lontano dalle logiche produttive e di mercato. Il fatto che il teatro, la danza e la performance contemporanee siano ambiti meno ricchi della musica dona a questo campo moltissima libertà, perché la preoccupazione di vendere il tuo prodotto è sicuramente molto meno rilevante rispetto alla musica pop. Per quanto riguarda le musiche cerco sempre di comporre con un legame molto stretto con la drammaturgia, cerco molto il senso della scena, dopodiché mi metto al lavoro.

Hai un idolo musicale che ti ha ispirato a diventare l’artista che sei oggi?
Nel corso degli anni ne ho avuti moltissimi: Leonard Cohen, Scott Walker, Johnny Cash, ma anche italiani, come De Andrè o Guccini. Anche se la vera adorazione per un personaggio è una cosa che nasce nell’adolescenza, e forse questo passaggio per me l’ha rappresentato Jimmy Page dei Led Zeppelin.

Descrivici il tuo lavoro con una parola.
Molto difficile, non sono bravo ad essere sintetico. Forse sceglierei “necessità”.

Ho visto che curi la musica di sfilate per brand come Marni e Rambaldi. Hai qualche aneddoto divertente da raccontare?
Uno abbastanza divertente riguarda un evento di Marni, la mia prima collaborazione con il brand e anche la più importante: Looking for Marni, presentazione di una linea di occhiali in collaborazione con Marchon. Avevo ventidue anni e non avevo mai composto per la moda, quindi facevo fatica a trovare un significato da comunicare con la musica. L’illuminazione mi è arrivata con i postumi di una sbronza: il mal di testa con il quale mi sono svegliato mi ha fatto ricordare come è fatto un cranio umano, quindi ho deciso di costruire un impianto che ne riproducesse la forma anatomica. Solo nelle zone della sala che corrispondevano agli occhi si sentivano tutti gli strumenti presenti nella composizione, mentre muovendosi nel resto della stanza si percepiva magari solo la batteria, o solo la sezione d’archi. Una mossa molto azzardata che si è rivelata un successo, tanto che l’evento finì addirittura sul New York Times.

Nell’intro del tuo album La voce umana, hai inserito il monologo di Jean Cocteau del 1930, reinterpretato dalla celebre Anna Magnani nel film L’amore del 1948, su regia di Rossellini. Il monologo vede una donna disperata al telefono con l’uomo che ama. Il tuo album parla di uomo disperatamente innamorato?
La cosa che mi ha colpito di quel monologo è che noi sentiamo soltanto la voce di lei, che sembra parlare da sola. Questo mi ha fatto identificare con la protagonista, perché anche io mentre scrivevo ho affrontato un processo di introspezione molto lungo e delicato, che ovviamente, ha riguardato anche i miei sentimenti e i miei amori.

Quanto di quello di cui canti nei tuoi brani è autobiografico?
Praticamente ogni cosa. Prese da ottiche differenti, da momenti diversi della mia vita, ma il materiale narrativo riguarda sempre il mio vissuto.

Sei politicamente impegnato?
Sono una persona profondamente di sinistra, ma oggi faccio davvero fatica ad identificarmi con un partito: la sinistra vera è praticamente scomparsa. L’ultima volta ho votato Emma Bonino, che stimo molto per le sue battaglie sociali, come quella per il divorzio o l’aborto. Senza di lei saremmo ancora più indietro di così, ma anche del suo partito ci sono molte cose che non mi piacciono.

© Giovanni Battista Righetti
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