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Se vivi in un posto in mezzo alla montagne hai due opzioni. O la musica viene da te – e per quanto  inverosimile, è incredibilmente accaduto. Addirittura per diversi anni, in uno dei festival montani più frigidi e remoti. Ma questa è un’altra storia – oppure, se vuoi sentire dal vivo le tue canzoncine del cuore, quelle che ti accompagnano quando torni a casa incazzato, hai una sola soluzione: vai dalla musica. La terza via (vale sempre la pena considerarla) sarebbe invece quella di mendicare su YouTube con commenti che suonano come appelli disperati: “venite a Sassari”, “quando venite a Catanzaro?”, “ma una data ad Imperia?”, “vi aspettiamo a Chieti”. Ma si sa, la provincia italiana. Aspetta. Sa aspettare. È il suo forte.

Stagione 2015/2016.
Esami finiti. Prezzo della benzina da non fare rimpiangere le vecchie lire. I treni arrivano in orario. Si va. Senza cognizione di causa. Senza chiedersi dove si dormirà. Senza addosso quella malinconia da “certe notti” del Liga. Bisogna andare. Bastano qualche birra da discount, tutt’al più una fiaschetta, ed i compagni di trasferta giusti.

Sotto palco, a svariati chilometri dalle montagne materne, magicamente, altri che tornano a casa incazzati ascoltando ossessivamente le stesse musichette. Sopra il palco 4 ragazzi che di gavetta ne hanno fatta per essere lì. Dicono di venire da Perugia. Sottopalco prosegue il rito sacro del pogo con il suo codice non scritto di mutuo soccorso. Il sudore degli altri addosso. La calca. Quel senso di condivisione, nonostante un accento marcatamente diverso. Il comune combattimento per l’incertezza unisce i due mondi, quello sopra e quello sotto. “Questo ci resta”, sentenzia Aimone saltando, facendo roteare il microfono, tamburellando dannatamente il rullante che ha in centro alla scena. Ad un certo punto succedere qualcosa di unico e di grande. Cose che accadono solo al Forest Summer Fest insomma. Sale sul palco Appino. Sì, Quell’ Appino! Quella sera era il concerto della casa discografica Woodworm, va precisato. Un premio inaspettato per il pubblico (non pagante, sia chiaro. Siano benedetti i festival estivi lombardi: un magnifico collage di associazioni che ci credono, sommato allo spirito di una sagra paesana). Appino e gli animali veloci ed i bambini lenti assieme, wow: tra sette anni ci potrai scrivere un articolo! Un abbinamento per concordanza, spontaneo. Dicono che dobbiamo andare tutti affanculo. Il pubblico replica, concorda. Appino, ringrazia, saluta e lascia la scena. I perugini continuano la loro performance, vogliono un’altra coperta, non avranno mai più paura, nemmeno del mare davanti. E noi con loro. Poi tutto termina. Ma in fondo, cos’altro ci serve? C’è la notte. C’è il silenzio.

I local torneranno alle loro case terminato il concerto, con la poca voce rimasta ed il sudore che si asciuga. Noi invece siamo quelli che si esaltano se la band ringrazia chi ha fatto chilometri e chilometri per essere qui. Eppure, puntualmente, si scopre che c’è qualcuno, che di ne ha fatti di più. Che ci ha, in qualche senso, battuto. Peccato. Ma bravi loro. Noi che ci sentivamo degli eroi per essere arrivati a Foresto Sparso, forse più per il nome che per la distanza. Forse perché  volevamo veramente sentire i Fast Animals and Slow Kids. O almeno io lo volevo, assai. Era da anni, almeno due, che i perugini mi stuzzicavano con l’energia di “Hybris“. Era arrivato il momento di conoscerli.

Il Faro ha illuminato la nostra notte, quando Aimone lo ha ringraziato per il suo prezioso contributo. Lo abbiamo puntato diritto, con il presentimento che ci avrebbe allietato il resto della serata. Il Faro sta al banchetto – al merch come va di moda chiamarlo ora – il Faro non suona. A quello ci pensano Jacopo, Ale, Orso e Aimone. Formazione a 4. Le tastiere e gli orpelli musicali arriveranno dal tour seguente. Il Faro dirige. Gestisce. Coordina. Vive i concerti da una prospettiva unica. A modo suo intrattiene i fan, è parte della band. Lo hanno scelto perché sa tenere i conti – dice – in ogni situazione, e di situazioni, il Faro, ne ha viste tante. Rigorosamente perugino, amico storico dei fregis. Un ragioniere praticamente. Accetta le nostre birrette trafugate. Apprezza la fischietta, lo fa impazzire, anche se gli fa male. È uno dei nostri. Ci fa lo sconto sulle magliette. È fatta. In maniera spontanea conosciamo il resto della band. Socievoli. Si parla di musica, calcio, vita, e ancora di musica. Ci facciamo domande. Dei ragazzi composti, quasi timidi. Di quelli che per attraversare la strada, aspettano il verde per capirci. Dei rocker, magari non ancora per professione. Saremo amici. Lo avevano promesso loro stessi del resto. Saremo buoni amici, in particolare con il Faro. Ci diamo appuntamento al festival tra le montagne, dove la fiaschetta ci salverà dall’ipotermia qualche mese dopo. Inizio a seguire la band, a macinare chilometri, a scoprire altri festival. A conoscerli sempre di più, concerto dopo post concerto. Con Faro ci becchiamo anche in terra Umbra. Privatamente diciamo, quando è in congedo dai Fask. Anche lui ha la sua fan-base, il banchetto diventa un punto di ritrovo, un approdo sicuro. Una forma di “servizio clienti”, un sportello con il pubblico.

Andare ai concerti dei Fask ha significato, per anni, fare due chiacchere con Ale, Orso, Jacopo e il Ghianda, quando si unirà poi. Sondare di persona l’ansia di Aimone Romizi. Conoscere dei professionisti della musica, viverla con loro, in maniera intima in mezzo alla folla. Apprezzare l’impegno tecnico che vi è dietro un brano. Un album. Ci sono andato 9 volte fino all’estate 2019. Ho percorso 2.573 chilometri. Nord sud ovest est. A supporto dei ragazzi. 9 avventure, uniche a modo loro, con epiloghi talvolta del tutto inaspettati, ma anche questa è un’altra storia. Ho assistito a dei live virtuosi, altri più timidi. All’aperto, al chiuso. Estati, inverni. Ho caricato il furgone. Ci sono salito. Siamo cresciuti, assieme. Io. Loro. Il pubblico attorno. Noi. Siamo invecchiati. L’ ottavo concerto è l’ultimo del Faro. Non si poteva mancare. Giugno 2017. Due anni dopo Foresto Sparso. Il “maglietta ro” sale sul palco di una città di provincia. Sale di livello, passa dall’altra parte, gli viene concessa la scena che merita. Si gode il suo momento intimo. Parla al pubblico, forse ignaro dell’epicità del momento. Prima di salire mi guarda, si fida, mi lascia la gestione – provvisoria – del banchetto. Giusto il tempo di vendere un CD ad un padre che lo compra a suo figlio. Si chiude un cerchio.

Da aprile i Fask, torneranno a ruggire come degli animali, senza sedie, senza acustico, senza Faro. Sono più maturi, si godono il tempo che hanno. Bisogna andare. 

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